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Senza limiti

Abbiamo perso il senso del limite, e purtroppo lo abbiamo perso da un bel po’. Ma mai come qui a Taiwan sento ogni giorno l’insostenibilità della nostra società dei consumi.

L’Oceano Pacifico ci sta restituendo il nostro paradigma di consumo. Spazzatura a perdita d’occhio su una spiaggia di Lanyu, nel sud-est di Taiwan.

Oggi ho guardato, e soprattutto ascoltato, questa intervista a Massimo Fini. Un’intervista densa di contenuti e spunti di riflessione. E, soprattutto, di cose che non fa certo piacere ascoltare. Al contrario, cose che sono come vermi che vorremmo rigettare. Ma la maggior parte di queste tematiche sono entrate in risonanza con me, le ho sentite mie e, in tutta coscienza, le sento vere.

Recentemente, ho ritrovato una “poesia” che avevo scritto più di dieci anni fa.

Studiai ingegneria
con mente matematica
e cuore di poeta.
Le colate di cemento
mi danno il voltastomaco.
La mia devozione
va alla scienza
non alla sua applicazione.

(Febbraio 2011)

Solo che undici anni fa la catastrofe climatica mi sembrava molto lontana nel tempo, ora, come dice anche Massimo Fini nel video di cui sopra, non mi sembra più così lontana.

Gli antichi Greci (non a caso definiti da qualcuno il popolo più intelligente della Storia — perlomeno della storia occidentale, senza dubbio) avevano ben chiaro il concetto di limite. Leggetevi, per esempio, il mito di Prometeo, o il lemma hỳbris nell’Enciclopedia Treccani. I Greci avevano ben presente il senso del limite, della misura. Noi, invece, il senso del limite l’abbiamo perso da un bel po’ di tempo. Vedete anche la recente situazione dei mondiali in Qatar, una vera bestemmia contro la natura.

Ultimamente sto diventando piuttosto ossessionato per l’ecologia, soprattutto dopo che ho visto con i miei occhi come è ridotto l’Oceano Pacifico. Alcune spiagge qui fanno davvero paura, c’è plastica ovunque. Per essere corretti, però, va detto che spesso non sono rifiuti buttati dai Taiwanesi, ma vengono direttamente trasportati sulla spiaggia dall’oceano.

Ma è pur vero che qui a Taiwan, appunto, si consuma come se non ci fosse un domani. Se voi vedeste il modo assolutamente immediato e inconsapevole con cui la gente usa e getta la plastica qui, e la presenza di piccoli imballaggi ovunque... Si continua a consumare come se non ci fosse un domani, senza alcun riguardo per quelli che verranno dopo di noi. Ma forse non ci sarà nessuno che verrà dopo di noi. Forse finiremo come nel film Don’t Look Up, faremo finta fino alla fine di non vedere il disastro che ci viene incontro. Stiamo andando a sbattere veramente.

In realtà, non credo che ci sia solo un problema ecologico, anzi, quest’ultimo è solo un aspetto di un problema più complesso, una conseguenza della nostra perdita del senso del limite. A monte del problema ecologico, secondo me, ci sta il problema della pervasività della tecnologia.

Tra parentesi, le occasioni per tornare a casa in Italia si sono sempre più diradate negli ultimi anni. Questo era già il caso prima della pandemia, e si è accentuato con essa, a causa delle chiusure forzate delle frontiere. Eppure, anche nella rarità e brevità dei momenti di incontro e di contatto personale, mi sono spesso ritrovato davanti degli interlocutori (amici, parenti) che mettevano uno smartphone in mezzo. Ho cercato di esprimere la mia frustrazione, ma invano. Non c’è più un vero contatto sociale. Mettere in mezzo un telefono tra due interlocutori significa sopprimere ogni tentativo di comunicazione. Forse sarà anche per questo (o soprattutto per questo) che negli ultimi tempi non sento più una voglia così forte di tornare in Italia. E sono anche stufo di parlare di cose che la gente non vuole capire. Come dice Massimo Fini, “tu puoi anche dimostrare con la logica che un bicchiere è un bicchiere, ma, di fronte alla malafede, resta sempre una bottiglia”.

In altre parole, quello che voglio dire è che non mettiamo mai abbastanza in dubbio il nostro paradigma di consumo. Vogliamo solo la sicurezza, l’ordine, la stabilità... Eppure conosco molte persone che hanno una vita stabile, agiata, stipendi alti, posto fisso, magari nel settore pubblico, casa o appartamento di proprietà, piena sicurezza economica e sociale in alcuni dei Paesi più ricchi e più privilegiati del globo (Svizzera ed Europa in primis, ovviamente), ma non mi sembrano mai, dico mai, felici. Ed è triste vedere come le menti più brillanti della nostra generazione si adeguino passivamente e prestino la loro intelligenza e le loro competenze al perpetuarsi di un sistema che continua a generare infelicità e ingiustizia sociale.

A proposito di smartphone, mi sono pure stancato della pervasività dei messaggi di testo, in ogni momento, a ogni ora, da parte di tutti (qui a Taiwan perfino gli staff amministrativi accademici si permettono di inviarti su LINE, un servizio di messaggistica simile a WhatsApp, molto amato dai Taiwanesi, per ragioni che ancora mi sfuggono, informazioni contrattuali e professionali), come se dovessi sempre rispondere subito. Il ritmo non è più umano, non c’è più una pausa tra la ricezione di un messaggio e la risposta ad esso. Più in generale, in qualsiasi attività, abbiamo perso le necessarie e umane pause tra il pensiero e l’azione. Sta a noi decidere. Se ci sta bene consumare ad libitum e alla fine crepare. Oppure ritrovare un senso del limite.