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Elogio della bicicletta

Ho da poco finito di leggere il saggio di Ivan Illich Elogio della bicicletta (Bollati Boringhieri, 2006, 112 p.).

La copertina del libro.

In realtà, il titolo originale del saggio è Energy and Equity (Energia ed equità), ma per qualche ragione è pubblicato da Bollati Boringhieri con il titolo Elogio della bicicletta, forse a causa del saggio breve in calce, a firma del curatore Franco La Cecla, che si concentra ben più sulla bicicletta. Forse più che Elogio della bicicletta, sarebbe stato più appropriato Critica del trasporto.

La cosa più sconvolgente di questo libro non è tanto il suo contenuto (sono cose che ormai, nel 2022, sono più che risapute, trite e ritrite), ma è il fatto che dopo mezzo secolo (il saggio è stato originariamente pubblicato nel 1973!) non abbiamo ancora capito un cazzo.

Uso il plurale, perché, ovviamente, sono ben consapevole del fatto di aver me stesso contribuito a perpetrare questo sistema (i Valtellinesi tipicamente prendono l'automobile per fare due chilometri di strada, e sicuramente non eccellono nel rispetto per i ciclisti). Ma se ne sono consapevole ora, non lo ero vent'anni fa. Però avere sedici anni e non avere la testa per capire può essere comprensibile, arrivare a 36 e non averlo ancora capito sarebbe criminale oltre che coglione.

Citazioni dal saggio di Ivan Illich

Raccolgo qui alcune citazioni che mi sembrano degne di riflessione.

Una politica di bassi consumi di energia permette un’ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste. (...) stabilendo un tetto all’uso di energia si possono ottenere rapporti sociali che siano contraddistinti da alti livelli di equità. (...) La crisi energetica non si può superare con un sovrappiù di energia. (...) è necessario identificare le soglie al di là delle quali l’energia produce guasti.

Lo ricordo di nuovo: questo saggio è stato scritto nel 1973. Viene da pensare che ci ritroviamo spesso in una «crisi energetica».

La necessità di una ricerca politica sui quanta di energia socialmente ottimali è illustrabile in maniera chiara e succinta esaminando il traffico moderno. (...) Ogni volta che un mezzo pubblico ha superato i 25 chilometri orari, è diminuita l’equità mentre aumentava la penuria sia di tempo che di spazio. Il trasporto a motore ha monopolizzato il traffico, bloccando il movimento alimentato dall’energia corporea (che chiamerò «transito»). (...) A ogni incremento della velocità di un veicolo aumenta lo spazio che il veicolo divora col suo movimento si crea una struttura di classe, su scala mondiale, di capitalisti di velocità. (...) Questa corsa al tempo depreda coloro che rimangono indietro e, poiché questi sono la maggioranza, pone problemi etici (...) Coloro che devono spostarsi con forza propria si trovano riclassificati come emarginati e sottosviluppati. (...) il veicolo è diventato simbolo della carriera fatta (...) Oltre un certo punto, più energia significa meno equità.

La creazione di una struttura di classe a causa del trasporto è particolarmente evidente a Taipei, e a Taiwan in generale. Gli anziani, gli studenti e i pezzenti come il sottoscritto si spostano a piedi o in bicicletta, mentre i pezzi grossi possono occupare tutto lo spazio che vogliono con i loro veicoli.

A Taiwan, non è chiaro se nelle città vi sia ancora posto per pedoni e ciclisti.

Citazioni dal saggio di Franco La Cecla

Di seguito, invece, alcune citazioni dal saggio di Franco La Cecla, risalente all'ormai lontano 2006.

La nostra società è ancora vittima dell’automobile (...) L’auto è proposta non come mezzo per spostarsi, ma come opera d’arte, la gente si volta a guardarla come se fosse una bella donna (...) La cosa ancor più ferale è che la critica sociale all’automobile non esiste quasi più.

Con l’automobile la città che era risorsa primaria viene sottratta ai più e al suo posto si organizza uno spazio della circolazione che nulla ha a che fare con lo spazio democratico della polis. L’automobile espropria secoli di diritti d’uso, commons che garantivano fiere, mercati, ambulanti, vita intensa e ricca di faccia a faccia. Inventa un handicappato, il pedone, qualcuno che viene definito da una mancanza. E inventa le riserve, i recinti chiusi dove questa minoranza può circolare, le zone pedonali.

Ivan Illich individua senza mezze misure il carattere paradossale del mito per eccellenza della modernità, l’equazione più velocità = più libertà, e il suo corollario, auto individuale = via dalla pazza folla (...) il traffico e l’imbottigliamento non sono un effetto secondario del sistema, ne sono l’essenza. (...) Illich ci ricorda che la bicicletta è un’invenzione contemporanea a quella dell’automobile, non è venuta né prima come qualcosa di tradizionale né dopo come onda eco contestataria. È anch’essa un omaggio all’individuo (...) È una soluzione funzionale perché ha la velocità giusta per una città, riesce a districarsi in mezzo ad altre mille bici, non ha un problema di occupazione di spazio, non prevede l’eliminazione dell’uomo che cammina né l’invenzione del pedone. Era un’idea geniale... La bicicletta è il modo inventato per dare il massimo della libertà a tutti e il massimo della democrazia a una città. L’auto (...) della fruibilità di strade e piazze non se ne fa nulla. (...) è così poco di moda immaginare una città più umana e democratica, così impopolare chiedere che l’auto venga relegata a quelle invenzioni che hanno fatto il loro tempo.